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Chi getta semi al vento farà fiorire il cielo

Qualche giorno fa, il brutto risveglio. Due ore dopo avrei dovuto iniziare a lavorare. Un’ora e mezza l’ho trascorsa, senza accorgermi del tempo che passava, a scorrere i tweet, cercare le notizie più recenti, a illudermi di poter seguire la guerra in diretta, come se questo potesse farmi stare più tranquilla.
Sono figlia di un militare e diplomatico, in servizio prima nei Balcani e poi in Iraq. Quella compulsione la conosco bene. È un vissuto che collocherei a metà tra l’ansia e la rassegnazione: vuoi sapere cosa sta accadendo quindi coltivi l’illusione della tecnologia come la grande opportunità di averne la certezza. È il principio teorico dell’orribile verità che vince sul dubbio, applicato alla peggiore delle realtà possibili; il bisogno viscerale di mettersi il cuore in pace, accettando l’orribile.

Un ex fidanzato una volta mi disse: “Sei troppo attaccata alla tua famiglia, continuamente distratta dalla necessità di sapere che tuo padre è Online”. Incassai silenziosamente, pur sapendo si trattasse di qualcosa di più complesso dell’attaccamento alla famiglia.

L’esponenziale sviluppo della tecnologia ha condotto alla diffusione di un fenomeno che prende il nome di Information Overload, sovraccarico informativo con conseguente sovraccarico cognitivo. Negli anni sono state evidenziate e studiate le due sindromi più comunemente legate al fenomeno: l’Information Fatigue Sindrome (IFS) e l’Information Anxiety, entrambe derivanti dallo stress del dover fronteggiare una quantità eccessiva d’informazioni.

Richard Saul Wurman (1989) definisce l’ansia da informazione come “la lacuna sempre più vasta tra quello che capiamo e quello che riteniamo di dover capire. È il buco nero tra i dati e il sapere; si manifesta quando l’informazione non dice quello che vogliamo o abbiamo bisogno di conoscere”.

Si parla di Information Fatigue Syndrome (IFS) quando l’esposizione prolungata alle notizie reperibili in rete compromette la nostra capacità di elaborare correttamente le informazioni, incidendo negativamente sul nostro vissuto emotivo quindi sui processi decisionali.

In questi giorni mi è capitato di leggere di molte persone che raccontavano di non riuscire a non aggiornarsi su quanto sta accadendo in Ucraina. Ho riflettuto su quanto Twitter rappresenti la trappola perfetta per non smettere mai di aggiornarsi, sperimentando la sensazione di essere “dentro” la notizia, potendo leggere i comunicati in diretta di una guerra che si combatte anche Online. Senza considerare un altro rischio, quello che riguarda la tendenza a dimenticare che non tutte le notizie alle quali ci esponiamo sono la fotografia di ciò che sta accadendo, lì e ora. A tal proposito, suggerisco di seguire i profili social di Daniel Funke, fact checker per USA TODAY.

Tenersi informati è importante, non lo si può e non lo si deve negare; possiamo però scegliere accuratamente le fonti alle quali attingere per avere un quadro sufficientemente chiaro della situazione e scegliere un momento della giornata in cui farlo.

Qualcuno negli ultimi giorni si aspettava che gli/le influencer smettessero di fare il loro lavoro nel rispetto degli eventi in corso. Molti di loro hanno espresso la loro solidarietà tra una sponsorizzata e l’altra, ma anche questo comportamento è stato criticato, in un circolo vizioso fondato sulla convinzione che esistano un modo giusto e uno sbagliato di reagire a ciò che accade intorno a noi. Non esiste un modo giusto e/o sbagliato di reagire. 
Una distorsione spesso riscontrata è quella per la quale si pensa che la pubblicazione a mezzo social validi i nostri vissuti. “Se non lo scrivi, non lo provi” e ancora “Se non ti tieni costantemente informato, te ne stai disinteressando”. Guidati da tale distorsione, la possibilità che la ricerca di informazioni diventi un impulso irrefrenabile, quindi una dipendenza, è da considerarsi reale. E le dipendenze, si sa, causano ripercussioni sul piano emotivo e comportamentale. La dipendenza dai social in un momento come questo come difesa dall’eventualità di essere criticati o di percepirsi inefficaci. 

Ho letto che qualcuno ha criticato le inviate sul posto perché indossavano l’elmetto, accusandole di esasperare il rischio reale. Qualcun altro, mentre osservavo che abbiamo anche la necessità di distrarci da quanto sta accadendo, mi ha accusata di essere privilegiata quindi mi ha invitata a tacere. La guerra nella guerra, una guerra tra vittime di un simile vissuto di ansia, paura, angoscia e disperazione, emozioni alle quali è inevitabile ognuno reagisca a suo modo, ma sarebbe bene riconoscesse che il suo modo non è l’unico possibile.

Un contesto che può stimolare la percezione di autoefficacia è la manifestazione per la pace. Lì, possiamo condividere, anche silenziosamente, il nostro vissuto, esprimendo al contempo solidarietà e vicinanza alle persone direttamente coinvolte.

Chi getta semi al vento farà fiorire il cielo. Mentre aspettiamo, irrighiamolo di speranza e prendiamoci cura di noi.

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