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Il ruolo dell’aspettativa in psicoterapia

Aspettativa s. f. [der. di aspettare]. – 1. L’atto, il fatto di aspettare, attesa: essere in a., stare in a., aspettare.

Sempre più spesso, durante lo spazio del Mercole di‘, su Instagram, ricevo messaggi in cui diversi utenti, in forma anonima, esprimono i loro dubbi circa il percorso di psicoterapia, la relazione terapeutica, la condotta che pensano di dover tenere nel corso della seduta, ciò che si aspettano dal professionista. Provo dispiacere nel constatare che a volte non si approfitta di uno spazio di libertà, una libertà non assoluta e vincolata al contratto terapeutico, ma scevro dal giudizio che imperversa nello spazio che c’è, invece, tutt’intorno al fascio di fiducia che c’è (o che è auspicabile ci sia) tra il naso del terapeuta e quello del paziente.
Spesso, tali aspettative sull’efficacia, sull’immediatezza, sul terapeuta, su di sé, appaiono molto rigide. Nessuno degli esempi qui riportati viene riportato con intento giudicante, ma al solo fine di fare informazione.

L’indicazione che sono solita dare è: parlatene con l’altro/a protagonista della relazione terapeutica: lo/la psicoterapeuta. La relazione terapeutica è essa stessa strumento di terapia e portare alla luce, condividere nel proprio spazio e nel proprio tempo i dubbi, i timori, la rabbia, le fantasie, è un modo per utilizzare lo strumento nella gran parte delle sue potenzialità, delle sue funzioni. Non farlo sarebbe come acquistare una bella borsa capiente e portarsela dietro completamente vuota, tenendo nelle tasche tutto quello che serve e rischiando di romperle.

Le nostre aspettative parlano di noi, delle nostre esigenze e, anche per questo, anche qualora non venissero direttamente elicitate (“Cosa si aspetta da questo percorso?“), sarebbe opportuno esplicitarle.
Non è facile operare una distinzione in ogni singolo caso, ma è possibile differiscano tra loro l’aspettativa costruita sull’esigenza individuale da quella costruita sulla cattiva informazione.
La cattiva informazione, spesso, è il frutto della massiccia divulgazione. L’avvento dei professionisti in rete ha reso reperibili una serie di informazioni e costrutti che, nel caso della psicoterapia, coi suoi diversi orientamenti, rischiano, in assenza della competenze necessarie a integrare le informazioni ricevute, di apparire contraddittorie, soprattutto se espresse in modo netto. Alcuni approcci prevedono setting, contesti (dall’arredamento della stanza alla formalità, dalla frequenza delle sedute, alla modalità di svolgimento della stessa, al modo di regolare la disponibilità extra seduta) più strutturati di altri, senza che questa varietà renda un approccio meno valido di un altro. Quelli che spesso rischiano di essere interpretati come dei dogmi, sono in realtà un ampio spettro di possibilità, tra le quali scegliere quelle che ci si addicono maggiormente.

Il professionista deve fare ciò che il Codice Deontologico e la Legge prevedono. Tutto quello che non è regolato dai Codici, attiene alla scelta del singolo, allo specifico orientamento teorico, all’unica e irripetibile relazione tra terapeuta e paziente, una relazione volta alla cooperazione, simmetrica, diversamente da quella che c’è tra il chirurgo e il paziente sedato in sala operatoria.

L’aspettativa prevede si aspetti che qualcosa accada, che l’Altro, il terapeuta in questo caso, faccia qualcosa.
La psicoterapia, invece, prevede che la persona si impegni nel suo percorso di conoscenza, consapevolezza, accettazione, cambiamento, guidata (non trascinata) dal professionista. Anche in questo caso, la linea di demarcazione tra l’impegno e il rischio che la seduta e il percorso diventino una prestazione è sfumata, ma il terapeuta sa come individuarla e, qualora fosse necessario, evidenziarla.

Non vi stupireste (o magari sì, ma per via di un errore cognitivo) se un barista dichiarasse di non bere il caffè né il cappuccino, meno, probabilmente, se l’ortopedico avesse il malleolo fratturato. Quello che è importante è che il barista sappia farvi un buon caffè e che l’ortopedico si rimetta in forma prima di tornare a lavorare.

Entrando nello specifico di alcune aspettative del paziente che mi sembra vengano più di frequente disattese, è importante ricordare che il professionista è quanto più possibile allenato all’ascolto e alla gestione delle sue emozioni, nei limiti della condizione umana e al di là di ogni inutile (per tutti) tentativo di controllo. Le emozioni hanno sempre una funzione adattiva e, per questo, a meno che non rappresentino la manifestazione di un malessere che possiamo equiparare al malleolo rotto dell’ortopedico, per il quale sarebbe opportuno assicurarsi prima di avere risorse a sufficienza per lavorare quindi per occuparsi dell’Altro, può risultare perfino utile non reprimerle. Il bravo terapeuta è quello che si prende cura della relazione terapeutica, meno bravo è colui che la considera una privazione. La relazione, qualunque tipo di relazione sana, aggiunge e non priva. La relazione, qualunque tipo di relazione sana, prevede l’interazione tra due umane imperfezioni e, per questo, non può dirsi, in nessun caso, perfetta.

Veniamo a un’altra questione a mio avviso poco chiara: il tempo.
Il tempo necessario a stare meglio, perché questo è l’obiettivo principale, non lo si può decidere a priori. Dipende da molteplici variabili individuali e ambientali, volendo considerare i due macrosistemi – realtà interna e realtà esterna. Ciò non significa non ci si possa interrogare e confrontare (soprattutto confrontare) sullo stato dell’arte.

Se lo stato dell’arte non dovesse soddisfare, il contratto terapeutico non viene sottoscritto dal notaio: cambiare percorso, cambiare psicologo, terapeuta, si può. Non è facile, lo so, ma, tornando a qualche riga sopra, l’obiettivo ultimo è stare meglio.

E il terapeuta che cosa s’aspetta dal paziente? Il terapeuta auspica che la persona si senta libera, non giudicata, accolta, contenuta se necessario, ma, perché questo accada, non può restare in attesa, deve necessariamente fare il Suo, il Suo professionale e il Suo personale.

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