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Proverbi e detti popolari: possibili effetti sulla costruzione degli schemi cognitivi

Nella pratica clinica, nel corso dell’indagine per approfondire le convinzioni profonde (in psicoterapia cognitiva – core beliefs o schemi cognitivi – ), mi è capitato più volte le persone provassero spontaneamente a riassumere, sintetizzare, spiegare il loro vissuto (pensiero e/o emozione) servendosi di un detto popolare. Consideriamo tali convinzioni profonde le modalità attraverso le quali l’individuo rappresenta e dà significato a sé stesso, agli altri, al mondo; grazie alla funzione del linguaggio, quella di tradurre in parole tali rappresentazioni, le persone divengono consapevoli della realtà interna e/o esterna e costruiscono i loro personali significati.

I proverbi sono espressioni idiomatiche, frasi stereotipate che devono essere inserite in uno specifico discorso per avere senso compiuto. Possono essere prescrittivi, suggerendo un comportamento che converrebbe tenere o evitare o descrittivi, cioè quando descrivono apoditticamente una situazione.
E se il carattere prescrittivo di alcuni proverbi, divenisse, quando l’individuo è con costanza esposto a tale supposta verità, una doverizzazione interiorizzata?
Un esempio: “Prima il dovere e poi il piacere!”
Questa esortazione viene addirittura proposta come un modello educativo efficace, sin dalla scuola dell’infanzia. “Prima i compiti e poi ti diverti”, come se il piacere fosse un premio, un rinforzo, qualcosa da guadagnare dapprima con il sacrificio.
E se il dovere che deve a tutti i costi precedere il piacere, divenisse, tra le altre cose, la sentenza di prigionia nei ruoli predefiniti? Se da qui arrivassero convinzioni come “Prima di ogni altra cosa devo essere una brava madre e solo allora potrò pensare a ciò che mi dà piacere”?
Hai mai sentito dire “Chi si loda s’imbroda?”
Mi capita spesso di parlare con persone convinte di non potersi dire “Sei stata brava/o” perché “Vale solo se te lo dice qualcun altro oppure sarai colpevole di presunzione”. È facile intuire quanto possa essere utile, nel contesto di un percorso di psicoterapia, mettere in discussione tale convinzione, che ci espone costantemente al giudizio altrui, col rischio che il giudizio di valore nei confronti di noi stessi (autostima) si pensi possa arrivare solo dall’esterno, mediante ripetute conferme. Il risultato? Se non mi dicono che sono – qualifica positiva –, significa che non lo sono.
I costrutti sociali, familiari, collettivi, assumono spesso il carattere della verità assoluta. Una tendenza rintracciabile anche in una serie di espressioni che N. Ginzburg ascriverebbe al lessico familiare che, se da un lato consentono di identificarsi con la famiglia di riferimento, dall’altro possono rendere difficoltosa una nuova narrazione su sé stessi, soprattutto quando ci si accorge che le verità assolute sono un ostacolo alla flessibilità nei confronti di sé stessi (schemi rigidi e possibile compromissione sul piano dell’autostima) e degli altri (schemi rigidi e possibili difficoltà sul piano relazionale).
Prima di iniziare con la messa in discussione di talune credenze è opportuno discutere la possibilità che esistano effettivamente delle verità assolute, valevoli per tutti. La cultura popolare generalizza, si propone di ricavare da un fatto, un evento, un elemento circostanziale, una regola universale nella quale chiunque possa rispecchiarsi, al fine di identificarsi con la comunità d’appartenenza. Il detto popolare costruisce una versione quasi univoca della realtà, insindacabile. A ciò si aggiunge che le forme proverbiali sono spesso associate alla “saggezza”.
Volendo avventurarsi in un volo pindarico, è quello che, in parte, avviene anche sui social: si propone spesso un suggerimento al fine di aiutare e supportare le riflessioni intorno a quella che viene venduta come una perla di saggezza, ma che, in realtà, non fa altro che diventare qualcosa a cui, chi scorge l’immagine, nella gran parte dei casi,  pensa di dover aderire, nella quale pensa di doversi identificare.

Un altro ambito nel quale questo avviene molto spesso è quello relazionale.
Anche in questo caso, si tende a supporre l’esistenza di un modo giusto o sbagliato di approcciare alla conoscenza, alla relazione, al tradimento, alla fine del rapporto, un modello al quale si deve aderire in funzione di un risultato garantito perché già testato da altri.
La cultura popolare è importante continui a far sì che le persone si sentano parte di un tutto; un tutto che però, per fortuna, cambia, muta, evolve nel tempo e questo non possiamo ignorarlo.

L’esperienza soggettiva è sempre unica, non replicabile e, sebbene esistano delle esperienze condivise, non è detto lo siano anche i relativi vissuti.

Quello che possiamo fare è domandarci, quando avvertiamo che il pensiero si delinea in una forma conosciuta, appresa, magari in famiglia, se quella formula, quel modo di dire sia davvero coerente con quello che noi in quel momento stiamo vivendo, se sia sufficiente a descrivere ciò che sentiamo e, soprattutto, se ciò che suggerisce di fare corrisponde realmente alla nostra volontà. Come un capo d’abbigliamento nel negozio della cultura di appartenenza, il proverbio, il detto, va indossato per capire se fa per noi oppure no.


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