La vita online è una vita relazionale a tutti gli effetti; non è immediato l’adeguamento di costrutti coi quali abbiamo spiegato l’umano nell’interazione con il suo ambiente al caso dell’interazione con l’ambiente digitale, virtuale, ma è qualcosa di cui conviene occuparsi. L’oggetto di studio della psicologia è l’umano, in relazione col contesto di riferimento, con quello che abbiamo sempre definito ambiente fisico o realtà esterna. Oggi, la psicologia non può trascurare la vita che l’individuo conduce online, in un ambiente sociale che sicuramente non è l’ambiente reale, ma che, allo stesso modo, contribuisce, sotto molti punti di vista, al continuo processo di costruzione del nostro senso d’identità.
Così come accade per questioni etiche relative, ad esempio, all’esposizione dei bambini sui social, anche per quel che riguarda il modo in cui ognuno di noi utilizza lo strumento è opportuno assumere un atteggiamento critico e analitico.
Risale al 1890 la prima definizione del Sé, composto da un Io consapevole e da un Me inteso come il Sé conosciuto dall’Io, cioè come ognuno di noi “si vede” in relazione a tre aspetti principali: materiale (percezione del nostro corpo), sociale (come ci percepiamo quando viviamo le relazioni e i vari contesti sociali), spirituale (come ci percepiamo presenti a noi stessi). (W. James, 1890).
C. H. Cooley (1902) descrive il Sé come un’esperienza legata all’autoconsapevolezza acquisita grazie alle esperienze relazionali e sociali, mediante rispecchiamento: definiamo noi stessi anche a partire dal modo in cui ipotizziamo di apparire agli occhi degli altri.
Diverse altre definizioni del Sé sono state proposte, alcune più specifiche, altre più flessibili, ma quello che interessa ai fini del discorso è che definiamo noi stessi in base a quello che esperiamo e che percepiamo, anche e soprattutto quando siamo in relazione.
Ognuno di noi, oggi, ha un’identità digitale, anch’essa, si ipotizza, in continua evoluzione. Se disponiamo già di molteplici immagini di noi stessi, l’identità in rete ci consente di strutturare ancora più immagini, per via della possibilità di esprimere noi stessi in diversi contesti, ma attraverso un unico canale. Per rendere l’idea: il collega che ci segue sui social e col quale non ci si vede fuori dall’ufficio, se prima costruiva un’idea della nostra persona mentre esercitavamo un ruolo specifico, oggi, se ci segue sui social, può vederci all’opera come fidanzati, genitori, figli, fan al concerto del nostro cantante preferito. I gusti, le preferenze e le inclinazioni altrui che un tempo venivano indagati nel processo di conoscenza, oggi scorrono davanti ai nostri occhi, senza che ci si debba necessariamente impegnare nell’interazione, nella conoscenza.
Non deve sorprendere che nel continuo chatting […] il sè dei partecipanti sia spesso in gioco, sotto forma di dichiarazioni sui propri pensieri (“a cosa stai pensando?” di Facebook), o di rapide cronache di vita (le microdichiarazioni di Twitter piuttosto che alcuni video autoprodotti su YouTube, o in quelle narrazioni concentrate che sono le pose fotografiche (le foto di Instagram), o nei ragionamenti più o meno autobiografici che colorano post e commenti sui blog”.
(F. Colombo, 2013)
L’identità digitale ci mette nella condizione di costruire una nuova narrazione autobiografica attraverso la quale, in molti casi, cerchiamo di soddisfare il bisogno di riconoscimento.
Secondo Colombo, offlife come onlife, perseguiamo l’intento di essere riconosciuti. In tal senso, la possibilità di interagire con più persone, in diversi modi (chatting, like, apprezzamenti vari), rappresenterebbe un vantaggio.
Fino a dove siamo disposti a spingerci però per soddisfare questo bisogno?
In un articolo uscito per VIVA lo scorso anno, scrivevo di confini personali come di quella delimitata zona immaginaria entro la quale ci autodeterminiamo in libertà, decidendo se, quando e come ospitare chi vorrebbe entrare in relazione con noi, a ogni livello di relazione. Porre confini definiti, ma, al contempo, flessibili, ci consente di essere liberi, di scongiurare relazioni invischianti e l’eventualità di allontanare l’Altro, con fare aggressivo. Libertà e tutela del proprio Sé che, come specificato sopra, si nutre di ciò che ci viene rimandato, che viene riconosciuto, apprezzato.
Come e quanto siamo in grado di definire i nostri confini quando siamo connessi? Scegliere cosa pubblicare, chi seguire, quale tipo di narrazione utilizzare, è sufficiente? Neanche seduti al tavolino di un bar possiamo avere la certezza di ciò che chi abbiamo davanti penserà di noi, ma l’interazione è costante e si serve anche del linguaggio non verbale. Quando qualcuno col quale interagiamo in uno spazio fisico oltrepassa il limite da noi posto, tenuto conto delle sensibilità personali, ce ne accorgiamo e ci comportiamo di conseguenza.
Mi è capitato di leggere di amiche, influencer di professione, scosse da messaggi con i quali alcuni followers estimatori/estimatrici, si lasciavano andare a dichiarazioni d’affetto che includevano, più o meno esplicitamente, un conferimento di responsabilità individuali, percepite, in molti casi, come una violazione del proprio confine. Cosa mi stanno rimandando? Questo loro comportamento parla di loro o di me, di quello che ho dato l’idea di poter essere per loro? E, se l’avessi fatto senza accorgermene, come farò ad aggiustare il tiro?
Di recente abbiamo visto la ripresa di una videocamera di sicurezza che raccontava un momento intimo madre/figlio. Una scelta, quella di C.F., insindacabile in quanto tale, ma come possiamo non domandarci cosa spinga a farlo, quando questo genere di autorivelazioni ci sembrano stonare?
Il rischio è che ciò che stona oggi domani possa non stonare più e lo abbiamo già visto, in diversi casi. Abbiamo sdoganato ciò che non avremmo mai immaginato di sdoganare, sempre in funzione di quel bisogno di cui sopra, ma la domanda con la quale vorrei concludere questo pezzo è: il muro alla fine del mare, che dà la possibilità a Truman Burbank di varcare la soglia del mondo costruito per lui e da lui fino a quel momento vissuto, esiste? Se siamo sia protagonisti che registi del nostro personale Truman Show, riusciremo a mantenere un buon livello di consapevolezza su ciò che potrebbe rappresentare, per noi, un rischio?
Voglio pensare di sì.
Come? Delineando un confine personale, oscurando la fotocamera per qualche minuto e intraprendendo la navigazione verso una sempre maggiore libertà. Si è più soli in mondo di comparse, che in un mondo di persone curiose di sapere, davvero, chi siamo.
(Il riferimento è al film The Truman Show, del 1998, diretto da Peter Weir. Lo trovate su Netflix.)
di Arianna Capulli