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Il rifiuto fantasma

Dare un nome ai fenomeni non significa necessariamente porre in evidenza un problema che affligge l’umanità. Tutto è di competenza della psicologia perché tutto ha a che fare con l’umano e le sue relazioni, con l’ambiente e i suoi simili. La psicologia si occupa anche di provare a definire le reazioni più comuni a specifiche circostanze, comportamenti, eventi. Definizioni, quelle risultanti, in cui può essere utile ritrovarsi, ma nelle quali non è mai utile cercare di entrare a tutti i costi.
Normalizzare, come scrivo e dico spesso, non significa etichettare né etichettarsi, stigmatizzare.
Il fenomeno del ghosting è stato scarsamente indagato in letteratura, nonostante gli effetti di tali comportamenti subiti siano talvolta motivo di sofferenza psicologica. Quello che sappiamo è che, la sparizione, avrebbe soprattutto a che fare con il cosiddetto digital flirting più che con relazioni consolidate, per le quali si sono raggiunti buoni livelli di conoscenza e confidenza, se si considera soprattutto il darsi alla macchia come atto finale di uno scambio relazionale. C’è ancora confusione sulla possibilità di parlare di ghosting anche in riferimento a relazioni non sentimentali.

I comportamenti altrui suscitano in noi delle reazioni e viceversa. Salvo rari casi, non potendo generalizzare, è possibile ipotizzare sia difficile incontrare qualcuno felice di ricevere un rifiuto, con o senza motivazioni espresse.
Al campeggio di Torre Flavia vigeva una regola: l’ultimo giorno d’estate salutavi il partner di mille e un falò in spiaggia per rivederlo un anno dopo, accettando sommessamente di non sentirlo e assumendo il rischio di vederlo arrivare con la sua nuova fidanzata l’anno dopo. La bella notizia? Assumendo il rischio assumevi anche la speranza di essere tu quella che, un anno dopo, sarebbe arrivata con l’amore della sua vita.
Mi spiace essere arrivata a quell’età in cui posso parlare di qualcosa che alcuni lettori non conoscono, ma alcuni studi hanno dimostrato che, sebbene l’uso della tecnologia rappresenti oggi il mezzo attraverso il quale comunemente si attuano comportamenti di ghosting, questa sembrerebbe aver solo aumentato la probabilità di mettere in atto simili strategie di evitamento, specialmente tra i giovani adulti (Meenagh, 2015).

Il comportamento di una persona che smette di scrivere e/o rispondere può suscitare vissuti d’ansia, di tristezza, confusione, ma anche di colpa, se la tendenza è quella a un locus of control rivolto verso l’interno quindi a ricercare nei nostri comportamenti la causa di ciò che ci succede.
La necessità di evitare il confronto parla invece di chi ce l’ha, più che di chi la subisce, così come l’incapacità di definire onestamente i propri sentimenti e/o le proprie intenzioni.
La pragmatica della comunicazione umana ci insegna che non si può non comunicare. Non comunicare è una comunicazione, ma non è quella che vorremmo, soprattutto perché è quella che non prevede uno scambio in cui noi possiamo liberamente esprimerci sentendoci protagonisti attivi. Questo ci frustra, nel migliore dei casi e ci porta a metterci in discussione, nel peggiore.

Ricordiamo che possiamo scegliere. Anche se qualcuno smettesse di risponderci, potremmo scegliere di insistere (nei limiti della legalità), di smettere di aspettare quella risposta, decidere che una persona che si comporta così non è una persona con la quale ci interessa condividere la nostra vita.  Possiamo essere, nonostante tutto, protagonisti attivi delle relazioni che viviamo.

Le relazioni sono un campo minato in cui ogni mina è un dubbio alla terza persona singolare: un chissà se scriverà, chissà se durerà, chissà se mi tradirà. L’importante è che i dubbi siano espressi soprattutto alla terza persona singolare.

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