Sono andata alle poste e avevo cento persone davanti, quindi ho scaricato la App e preso appuntamento per il giorno dopo. Il giorno dopo, due minuti prima del mio rispettato appuntamento, iniziava la rivoluzione.
C’erano ancora molte persone in attesa e due soli sportelli aperti; un anziano signore, seduto di fianco a dove io ballavo sul posto dall’impazienza, mi chiede:
“A che ora ha l’appuntamento?”
“Alle 11.00”, faccio io.
“Io devo aspettare qui solo perché non so come si fa a prenderlo. Non lo trovo giusto.”
“Ha ragione”, l’unica risposta che sono riuscita a dare.
Nel frattempo chiamano il nostro numero, alle 11.00 in punto.
“Menomale”, penso, “Non ho tempo da perdere qui, devo tornare a casa, mangiare, lavorare, occuparmi di stare bene, godermi questa settimana di ferie trascorsa a far visite e a sbrigare faccende che altrimenti non potrei sbrigare”.
Dobbiamo fare un’operazione complessa; occupiamo uno dei due sportelli attivi per almeno 40 minuti. Le parole dell’anziano signore col gilet beige e il cappello arancione risuonano nella mia testa. Mi giro, è ancora lì, seduto, che si guarda intorno, mentre altri protestano. Noi invece abbiamo finito, usciamo di corsa, saliamo in macchina e ce ne andiamo.
Racconto quello che è successo su Twitter. “Oggi una persona anziana alle poste mi ha detto che non è giusto che io abbia potuto prenotare perché so usare il telefono quindi sono potuta passare avanti perché c’erano solo due impiegati. Ha ragione, ha ragione da vendere.”
Di lì a poco, il tenore delle risposte mi sorprende molto.
“È la selezione naturale”.
“Sentimentalismo pietoso. La persona anziana nella media non esiterebbe a mangiare i propri nipoti”.
“Non ha niente da fare, aspetta. Se no che impari una cosa nuova”.
Sono forse più amareggiata che sorpresa. In effetti non mi sorprendono quelle risposte.
Quando la teoria della selezione naturale sconfinò dal campo della biologia a quello delle relazioni tra gli esseri umani diventò l’alibi delle disuguaglianze sociali. Solo gli individui più attrezzati, quelli che funzionano, vanno avanti. Gli altri restano indietro, come l’evoluzione vuole che sia. “Survival of the fittest”, che giustifica il diritto del più forte sul più debole.
Penso a un’intervista di qualche anno fa a Rosi Braidotti (filosofa, direttrice e fondatrice del Centre for the Humanities, Eminente Professoressa all’Università di Utrecht) che, nell’ultimo anno, tra le altre cose, sul tema vaccini, ha sottolineato diverse volte la necessità di una nuova solidarietà intergenerazionale, la stessa che possiamo ipotizzare abbia portato i “giovani” a vaccinarsi; gli stessi giovani che, qualche giorno fa, si sono sentiti dire che non sono stati bravi a valutare i rischi di un vaccino che gli è stata data la possibilità di fare, nonostante non fosse indicato per la loro età. Non sono stati bravi a valutare i rischi perché presi dalla voglia di godersi le vacanze, la socialità ritrovata, i concerti. E perché sennò? Per quale altro motivo avrebbero dovuto farlo?
Riporto qui di seguito alcune sue risposte, perché possano essere uno spunto di riflessione:
La retorica del nuovo fa parte del programma di consumismo sfrenato e maniacale del capitalismo avanzato. C’è una tensione tra il potenziale gigantesco delle nuove tecnologie che hanno come meta il controllo del vivente e di tutte le sue forme, e l’uso monodirezionale che ne viene fatto dal capitalismo — per cui il capitale è la vita stessa. E soprattutto il fatto che hanno riallacciato questa molteplicità complessa alla nozione più restrittiva possibile di individualismo, associandoci una morale molto stanca, la classica morale neokantiana umanistica, che sta andando alla grande. Viviamo in un’epoca moralizzatrice, cruenta e contraddittoria. Quindi io non voglio cadere nel discorso antiquato della tecnofobia che prevede la tecnologia come strumento di dominio perché non ci credo; sono stata allieva di Foucault e il potere non è mai a senso unico. Queste tecnologie sono al tempo stesso liberatorie e strumenti di morte e di distruzione. Abbiamo droni, telefonini, fecondazione assistita e poi i morti al largo di Lampedusa; sono versanti della stessa medaglia e noi dobbiamo pensare alla contemporaneità e agli effetti del potere, molteplici e contraddittori. La forza liberatrice della tecnologia è, e dev’essere, fonte di esperimenti. Sperimentare alcune di queste tecnologie, nei limiti del possibile, sarebbe per me una specie di ridefinizione di ciò che la filosofia dovrebbe fare. Ci occorrono laboratori fondamentali con i quali ricostituire comunità di sapere ma anche di saper fare a partire da queste tecnologie. Inoltre non sono contraria a priori alle modificazioni genetiche. Penso per esempio alla biologia sintetica che è riuscita a fare le prime porzioni di carne artificiale. Si metterebbe in discussione l’obiezione morale di vegani e vegetariani, visto infatti che non è carne da macello di organismi viventi. C’è poi un laboratorio molto forte e bello riguardo i disabilities studies che stanno andando in direzioni molto più interessanti rispetto ad esempio agli studi sulla sessualità in generale, proprio perché i corpi sono già modificati.
E ancora, sul finale dell’intervista:
La rabbia che proviamo quando subiamo o assistiamo a un’ingiustizia è una passione che deve permetterci di sostenere il presente, di modificarlo a seconda dei nostri desideri, invece di disperderla in inefficaci atti nichilisti, noi possiamo trasformarla in affetto positivo. Investiamo nella ricerca di alleanze trasversali, di sinergie inedite, elaboriamo saperi comuni lontani dalle logiche del profitto, contaminiamoci e diffondiamo micro-politiche alternative ai modelli dominanti, stili di vita ecosostenibili, antisessesisti e antirazzisti.
Non voglio più eroi morti.
Trovate il testo integrale dell’intervista qui:
https://ilmanifesto.it/oltre-la-gabbia-del-soggetto/
Non è un paese per vecchi e non è un paese per giovani. Per chi è, allora, questo paese? Chi è il più adatto, quello che sopravviverà?
La vera lotta è tra di noi o è la nostra lotta contro qualcosa di altro, di molto più grande di noi?