Tommaso non conosce ruoli, se per ruolo intendiamo, come molti hanno risposto, sollecitati sul mio profilo Instagram, «La responsabilità che t’assumi o che ti danno di comportarti in un certo modo in base a chi hai davanti». Per lui esistono le persone che a un certo punto possono non esistere più, almeno su questa terra e, in quel caso, ci tiene che non vengano più nominate, probabilmente, ipotizzo, perché non è qualcosa su cui si può creare confusione.
È il fratello del primo amore di mio fratello. Siamo stati e siamo una famiglia, nonostante quella storia sia finita. Come sempre, quando una storia finisce e quando nuove persone entrano a far parte del sistema la questione dei ruoli ci preoccupa, ci attiva, ci spaventa, ci fa arrabbiare. Accade perché siamo ancorati a quello che riteniamo si debba fare quando una storia inizia, quando finisce, quando qualcosa succede o non succede.
Quando i miei genitori stavano divorziando e ambo i lati non si poteva, secondo noi, nominare la controparte, lui andava da uno a chiedere come stesse l’altra e dell’altra a chiedere dove fosse l’uno. Un gran lavoro di mediazione che nessuno di noi riusciva a fare, ma lui sì.
Tommaso, al funerale di mio nonno, che ha definito «una situazione davvero spiacevole», ha baciato la mano alla compagna (accogliente e divertita) di mio fratello, dicendole candidamente e col sorriso che le avrebbe salutato sua sorella, l’ex di mio fratello.
Abbiamo sempre immaginato una sceneggiatura scritta da lui, che ci avrebbe messi a tavola tutti insieme, a sorpresa, invitandoci a viverci anziché a rimanere fermi sui nostri conflitti, dissapori, fraintendimenti.
La sceneggiatura l’ha scritta la vita, creando un’occasione, estremamente spiacevole, per stare di nuovo tutti insieme, oltre i ruoli. È stato così bello, ma, al contempo, malinconico. La malinconia del constatare quante sovrastrutture creiamo, quante ce ne raccontiamo, di quanto ci priviamo in funzione di un ruolo che quello è e non può non essere.
Abbiamo un’idea poco flessibile di «relazione e del suo contorno», che indubbiamente strutturiamo per difenderci. Da cosa? Dalla forte gelosia che ci spinge a blindare più che a lasciar liberi di tornare, dalla paura di non essere all’altezza, di non riuscire a eguagliare quel ruolo che era stato di qualcun altro, come se questo non dipendesse da chi lo indossa, quell’abito.
Ho risentito di recente, dopo dieci anni, una persona per me importante, in occasione di un funerale. Se avessimo vissuto la vita secondo Tommaso questo non sarebbe accaduto, avremmo continuato a sentirci, magari, anche occasionalmente, o quantomeno a salutarci quando ci incontravamo in mezzo alla strada.
La rigidità dei ruoli e delle responsabilità correlate incide anche sulle aspettative che costruiamo, soprattutto in relazione a quello che ci aspettiamo (talvolta pretendiamo) gli altri facciano.
Dopo sei anni di relazione (il mio primo fidanzamento), ai tempi, conobbi un altro ragazzo, che tormentai (se mi leggi – mi dispiace) per due lunghi anni perché non si comportava come io ormai pensavo dovesse comportarsi un fidanzato. Ripensandoci, è possibile vedessi più spesso il ruolo di fidanzato anziché la persona. Mi tradì, facendomi come tornare coi piedi per terra, nel campo delle infinite possibilità più che in quello di come io credevo le cose dovessero necessariamente andare.
«Non mi deve tradire» o, sentite come suona meglio, «preferirei non mi tradisse»? La doverizzazione, che sia applicata a noi o agli altri, chiama in causa il controllo e il controllo toglie libertà soprattutto (e paradossalmente) a chi lo esercita.
I ruoli, nella nostra società, regolano la comunicazione, i rapporti familiari, nel privato e in ambito professionale. Viviamo in relazione, in un sistema in cui non tutti sono invitati e/o chiamati a comportarsi allo stesso modo e questo determina l’assunzione di ruolo. Uno psicoterapeuta non può, secondo il Codice Deontologico, assumere coi pazienti un altro ruolo che non sia quello per il quale viene pagato perché questo inficerebbe il trattamento.
Una necessaria forma di tutela, in questo caso, ma lo sbandieramento del proprio ruolo è sempre una forma di tutela? Pensiamo alle famiglie: quelli del padre autoritario e della madre casalinga, ruoli costruiti in passato proprio in base alle richieste della società, sono una forma di tutela per quel sistema?
Ancora una volta quello che ci incastra non è il ruolo, ma la rigidità del ruolo. Va bene stabilire che ci sono dei confini specifici, che qualcuno può oltrepassare (perché da noi invitato e perché ha un ruolo che glielo consente) e qualcun altro invece no, ma se qualcun altro un giorno dovesse assumere quel ruolo che gli consente di entrare a cercare calore in quel confine da noi posto e se questo fosse un nostro desiderio, perché privarcene entrambi in nome del ruolo precedentemente assunto? Uno scioglilingua, sì, come tutto ciò che potrebbe invece scorrere più fluidamente, se solo non fossimo condizionati dai nostri rigidi schemi.
I ruoli esistono. Tommaso a volte mi considera «sua sorella» e a me si riempie il cuore di gioia, ma la verità è che non lo sono. Non lo sono perché sua sorella è sua sorella, vive con lui, ha una relazione costante con lui, insieme hanno costruito la storia della loro (non sempre pacifica come è normale che sia) condivisione.
C’era chi scriveva che i ruoli sono abiti che indossiamo, a seconda della circostanza.
A me piace pensare che i ruoli siano un casco quando si va in moto, la cintura di sicurezza in macchina, la divisa di un carabiniere, di un poliziotto, di un’assistente di volo, una convenzione sociale, un’azione necessaria, salvavita o conciliante, sotto la quale e dentro la quale, però, c’è una persona.
E questo potremmo fare in modo di non dimenticarcelo mai.