Riporto qui un intervento scritto per Capibara, newsletter a cura di Gabriele Palumbo.
D’amore s’è parlato e si parla tanto, ma nella gran parte dei casi se ne parla riferendosi all’innamoramento, che è solo una parte di quello che comunemente chiamiamo amore. Come l’amore nell’arte, l’innamoramento è un momento, ha un inizio e una fine come l’opera che lo racconta, sia essa un quadro, un libro o un film.
Non è compito dello psicoterapeuta dare al paziente né a chi legge una definizione universale di amore, ma è soprattutto attraverso la conoscenza di sé stessi che possiamo conoscere il significato che la parola amore assume per noi, nel contesto delle diverse relazioni che viviamo. L’integrazione tra le diverse teorie che approfondiscono il tema delle relazioni umane, ha condotto a isolare alcuni elementi che si concorda sul fatto debbano essere presenti perché si possa parlare di un amore che aggiunga, anziché togliere.
L’amore inizia da sé stessi, dall’amarsi, ma soprattutto dal conoscersi.
La prima forma d’amore che conosciamo è l’amore simbiotico, regolato dal reciproco bisogno, di attaccamento e di accudimento. Parallelamente allo sviluppo fisico, emotivo e cognitivo, crescendo conosciamo diverse forme di amore fino a desiderare l’amore adulto che secondo J. Bowlby, teorico dell’attaccamento, coinciderebbe con l’omeostasi rappresentativa ovvero con la tendenza a scegliere il partner in base alla sua capacità di confermare le rappresentazioni mentali di sé, degli altri e del mondo acquisite nell’interazione con le figure significative sin dai primi anni di vita. Come è noto, ciò che è familiare è rassicurante, ma dalla rassicurazione che arriva dall’esterno si rischia di dipendere, allontanandosi dalla possibilità di percepirsi liberi. Ignorare questa tendenza e andare invece verso ciò che non conosciamo è sicuramente un atto di coraggio, che ci mette davanti la possibilità di un cambiamento, di sperimentare qualcosa di nuovo, con tutte le paure che ogni cambiamento comporta, ma il nuovo, a volte, è proprio quello di cui abbiamo bisogno per stare bene.
L’amore adulto, libero e sano è fondato sulla scelta e sul desiderio più che sul bisogno. Ho bisogno del tuo amore perché da solo/a non ce la faccio è un sentire che ci costringe a vivere tra la paura che l’altro se ne vada e gli sforzi per fare in modo che questo non accada, ma possiamo davvero evitare che l’altro se ne vada o si renda indisponibile per qualsivoglia motivo? A quale costo, per noi e per l’altro? Una relazione impostata in questo modo è una relazione asimmetrica, tra un individuo adulto, autonomo, realizzato e un altro che vive in funzione del primo, spesso idealizzato e quindi poco conosciuto nella sua reale essenza e accettato nella sua imperfezione.
Lo psicologo e psicoanalista Erich Fromm, autore del libro L’arte di Amare (1963) scrisse che gli elementi comuni a tutte le forme d’amore sono: la premura, la responsabilità (ma non il dovere), il rispetto e la conoscenza. La sua tesi di partenza è che “La maggior parte della gente ritiene che amore significhi «essere amati» anziché amare; di conseguenza, per loro il problema è come farsi amare, come rendersi amabili, e per raggiungere questo scopo seguono parecchie strade.”
Cresciuti col mito dell’anima gemella o dell’altra metà della mela, eredità platonica come l’amore solo immaginato e desiderato, ma mai reale, riteniamo che per ricostruire l’intero, la simbiosi come prima forma d’amore che conosciamo, non possiamo fare altro che cercare qualcuno disposto a completarci o a ricostruirci, ignorando il vantaggio di considerare l’amore un valore aggiunto alla nostra vita, la possibilità di condividere e costruire insieme più che di ricostruire sé stessi.
L’amore aggiunge e talvolta ripara, ma non è il pezzo che sostituisce quello che dentro di noi ha smesso di funzionare.
Non posso richiudere una mela se non con il pezzo che da quella mela s’è staccato.